A Venezia, sino al
1958, abbiamo avuto le tessere del pane. Bianche per gli adulti, verdi per i
bambini e i ragazzi sotto i 16 anni.
Una tessera bianca
dava diritto a un chilo di pane, una tessera verde dava diritto a mezzo chilo.
Quando si andava dal
fornaio, il fornaio stesso faceva un buco sulla tessera in corrispondenza del
giorno del mese,
così come fa un controllore in un vaporetto o in un autobus.
Il pane con la tessera costava 10 lire il chilo, il pane senza tessera costava
100 lire il chilo: una differenza enorme.
I miei genitori
avevano due figli e quindi ci spettavano tre chili di pane al giorno, per una
spesa di 30 lire.
Tre chili di pane per
noi erano tanti, troppi. Sotto casa, avevamo un ristorante il quale veniva a
farsi dare un chilo di pane al giorno circa, se non qualcosa di più e ce lo
pagava 10 lire il chilo, altrimenti sarebbe stato un reato (borsa nera). Un
paio di volte all'anno, per esempio alla vigilia di Natale o alla vigilia di
San Marco, quelli del ristorante ci offrivano tuttavia un bel pranzo, per
ricompensarci del disturbo.
Per l'acqua potabile,
c'è stato un periodo dal 1947 al 1954 in cui, saltuariamente, l'acqua stessa,
benché uscisse dai rubinetti, non era garantita come adatta all'uso umano:
appositi cartelli nelle calli avvertivano la popolazione. In quei periodi, ci
recavamo in campo Bandiera e Moro, distante duecento metri circa da casa nostra,
dove esisteva una gigantesca cisterna la cui fontana buttava acqua potabile.
Ricordo che quell'acqua sembrava tutt'altro che buona e puzzava da acido
solfidrico (uova marcie) e che, avvicinando uno zolfanello acceso alla bocca
della fontana, l'acqua prendeva fuoco e non si spegneva più sino a quando
qualcuno non vi avesse soffiato sopra con energia.
Perché dico tutto questo?
Perché non sono passati tanti anni e, con la crisi economica latente, queste
cose si potrebbero fors'anche rivedere.
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